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VERY LONG COVID: PERSISTENZA DEI SINTOMI DOPO 12-18 MESI DALL’INSORGENZA DELL’INFEZIONE E DEL RICOVERO
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Long-COVID è la persistenza o lo sviluppo di nuovi sintomi 3 mesi dopo l’infezione iniziale. Varie condizioni sono state esplorate in studi con follow-up fino a un anno, ma pochissimi hanno guardato oltre.
Un nuovo studio prospettico di coorte, dell’IRCCS Policlinico San Donato, – primo firmatario il Dott. Marco Ranucci, Dipartimento di Anestesia Cardiovascolare e Terapia Intensiva, IRCCS Policlinico San Donato, – valuta la presenza di un ampio spettro di sintomi in 121 pazienti ricoverati durante la fase acuta dell’infezione da COVID-19 e l’associazione tra fattori correlati alla fase acuta della malattia e la presenza di sintomi residui dopo un anno o più a lungo dal ricovero.
Si tratta di uno studio prospettico di coorte monocentrico, finanziato con un contributo del Ministero della Salute italiano per i progetti di ricerca della Rete Cardiaca degli IRCCS Italiani (Clinical Research Hospitals). La popolazione di pazienti ammissibili era rappresentata da soggetti ricoverati presso la nostra istituzione con diagnosi di infezione da COVID-19 tra gennaio 2021 e luglio 2022. La raccolta dei dati si è basata sul recupero dei dati rilevanti dai file del paziente originale e su un colloquio personale condotto da biologi dedicati e da un medico in un ambulatorio ospedaliero.
Riassumendo, i risultati principali sono stati i seguenti:
- a un follow-up medio di 17 mesi, i sintomi post-COVID persistono in circa il 60% della popolazione di pazienti;
- i sintomi più frequenti sono l’affaticamento e la dispnea, ma anche i disturbi neuropsicologici persistono in circa il 30% dei pazienti;
- se corretti per la durata del follow-up con un’analisi della libertà dall’evento; solo la vaccinazione completa (2 dosi) al momento del ricovero in ospedale è rimasta indipendentemente associata alla persistenza dei principali sintomi fisici, mentre la vaccinazione e i precedenti sintomi neuropsicologici sono rimasti indipendentemente associati alla persistenza dei principali sintomi neuropsicologici.
Grafico 1. Assenza di sintomi fisici maggiori nei pazienti vaccinati vs. non vaccinati (log-rank test, p = 0,001). Le aree azzurre e verde chiaro sono intervalli di confidenza del 95%. Dopo 1 anno, il 92% dei pazienti non vaccinati riportava ancora MPS rispetto al 50% dei pazienti vaccinati. Dopo 18 mesi, le percentuali sono scese rispettivamente al 50% e al 22%.
Grafico 2. Libertà dai principali sintomi neuropsicologici nei pazienti vaccinati vs. non vaccinati (log-rank test, p = 0,001). Le aree azzurre e verde chiaro sono intervalli di confidenza del 95%. Aggiustato per precedenti sintomi neurologici. Al follow-up di 1 anno, i pazienti vaccinati presentavano MNS nel 24% dei casi rispetto al 94% nei pazienti non vaccinati. A 18 mesi di follow-up questi tassi sono rimasti stabili per i pazienti vaccinati e sono diminuiti al 32% nei pazienti non vaccinati.
Il risultato principale dello studio riguarda il ruolo della vaccinazione. I pazienti vaccinati al momento della fase acuta dell’infezioni hanno mostrato un terzo di probabilità di sviluppare sintomi fisici maggiori (MPS) di Long-COVID rispetto ai pazienti non vaccinati [grafico1], e un quinto di probabilità di sviluppare sintomi neuropsicologici maggiori (MNS), indipendentemente dalla gravità della malattia malattia [grafico 2]. Il ruolo protettivo della vaccinazione non è, dunque, dovuto a una minore gravità della fase acuta, ma a qualche meccanismo alternativo sconosciuto che coinvolge il sistema immunitario.
Un diverso punto di vista
Lo studio dell’IRCCS Policlinico San Donato differisce da quelli esistenti e offre un diverso punto di vista.
In generale, i pazienti sono stati osservati per un periodo di tempo piuttosto lungo, fino a 20 mesi dopo la dimissione dall’ospedale, mentre la maggior parte degli studi limita il follow-up a 6-12 mesi. Inoltre, la popolazione di pazienti era omogenea (solo pazienti ospedalizzati) e monocentrica e ciò ha permesso di rivedere le cartelle dei pazienti e recuperare informazioni oggettive su una serie di voci, tra cui lo stato vaccinale e gli esami di laboratorio.
Un’altra differenza molto importante riguarda il fatto che i dati sono stati recuperati attraverso un’intervista diretta ai pazienti e non attraverso interviste telefoniche o questionari basati sul web. Ciò ha consentito un’identificazione più solida e meno soggettiva dei vari sintomi.
Infine (e diversamente dagli studi esistenti), è stato possibile valutare l’assenza di sintomi di Long-COVID con strumenti statistici adeguati, il che ha permesso di discriminare il peso di ciascuna variabile e, in particolare, di dimostrare che l’impatto apparente della gravità della malattia risulta attenuato quando analizzato in un modello basato sul tempo di follow-up. Lo stesso è accaduto per l’età dei pazienti: l’apparente paradosso di un minor tasso di sintomi residui nei pazienti anziani si spiega con il maggior tasso di pazienti vaccinati nella classe di età >80 anni (in Italia le prime vaccinazioni erano riservate agli anziani). Un’altra possibile spiegazione per il tasso più elevato di pattern Long-COVID nei pazienti più giovani (<50 anni) potrebbe essere correlata al fatto che i soggetti giovani e attivi sono probabilmente più sensibili a una diminuzione della capacità lavorativa e della resistenza alla fatica rispetto agli anziani. Tant’è vero che i sintomi neuropsicologici si comportano in modo diverso, con una tendenza verso un più alto tasso di persistenza nelle persone anziane.
RIFERIMENTI
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Ranucci, M.; Baryshnikova, E.; Anguissola, M.; Pugliese, S.; Ranucci, L.; Falco, M.; Menicanti, L. The Very Long COVID: Persistence of Symptoms after 12–18 Months from the Onset of Infection and Hospitalization. J. Clin. Med. 2023, 12,1915. → Scarica l’articolo Open access